Matteo Mauro, Museo della Fabbrica, Monastero Benedettini
Matteo Mauro, Museo della Fabbrica, Monastero Benedettini

«Il mio Barocco» è un progetto che Matteo Mauro, giovane artista e architetto siciliano dalla formazione internazionale, sviluppa ormai da diversi anni, inseguendo con tenacia una sintesi plausibile fra tradizione figurativa e tecnologie digitali.

Alle fondamenta di questa ricerca c’è un “ritorno”: un ritorno innanzitutto strettamente geografico, nella terra d’origine, dopo gli studi condotti in Inghilterra; ma anche un ritorno all’arte del passato, e in special modo al repertorio di temi e di immagini del Barocco siciliano, un imprinting indelebile nell’immaginario del giovane artista. In realtà già durante gli anni della formazione londinese Mauro si è dedicato ad approfondire l’Impressionismo e successivamente il Rococò, riflettendo in particolare sulle costanti matematiche di quella decorazione esuberante e indagando la possibilità di codificarle in un algoritmo e quindi in un software di digital design e digital sculpting.

Le prime applicazioni di questa ricerca – nutrite dal confronto costante con gli originali settecenteschi, meticolosamente rintracciati in importanti collezioni pubbliche e private – producevano prove via via più complesse: ai segni semplici succedevano stratificazioni lineari sempre più intricate; al bianco e nero dei prototipi si addizionavano palette di colori diversi; si sperimentavano supporti opachi o riflettenti, rigidi o flessibili. Attraverso ulteriori approfondimenti tecnici e sperimentazioni, le opere così ottenute avrebbero dato origine a quella singolare rivisitazione del Barocco che tutt’oggi è in corso, ricca di implicazione e prospettive.

Se da un punto di vista storico-critico l‘arte digitale e l’arte cosiddetta “generativa” hanno uno statuto ancora fragile, nondimeno sono promettenti gli esiti delle prime generazioni di esponenti, della cui ricerca anche Mauro fa tesoro, guardando ad artisti e designer come Arad, Bloch, Dillenburger, Stone, Wanders – solo per citarne alcuni – ma approntando, a partire dalla propria cultura figurativa e dalle proprie “radici”, un repertorio di modelli e un sistema di generazione della forma del tutto originali.

La complessità segnica del capriccio rocaille sfida l’abilità del codificatore, obbligandolo a concentrarsi sulle deviazioni bizzarre della linea, sulla magnificenza estetizzante della curva, generata da un processo morfogenetico digitalizzato, le cui variazioni possibili sono confinate – in fase di programmazione – in un range ampio ma definito di variabili. Tuttavia il brush digitale deposita la sua traccia sia assecondando le regole che il codificatore ha stabilito sia in modo del tutto casuale: un “ordine controllato” in cui una parte del risultato è frutto di “randomizzazioni” del pennello.

La forma si genera in un tempo lungo, con lentezza insistita, attraverso un processo di accumulo di segni su altri segni che ha dell’ipnotizzante (Domeisen). Dapprima, sul supporto vergine, compaiono le prime tracce, linee semplici o spezzate, che poi danno origine a ramificazioni, a fluttuazioni o a complesse sinusoidi, a variazioni serpentinate o spiraliformi. Tracce su tracce si sommano progressivamente nel tempo, fino a costituire fasci polifonici di linee e colori. Forme magmatiche, pulsanti, si accostano e si infittiscono, precisando strutture. Alla fine si distinguono poderosi motivi melodici e dominanti cromatiche.

La padronanza del repertorio sei-settecentesco, unita alla disinvoltura nell’uso dei codici di programmazione digitale, hanno prodotto negli ultimi anni risultati sempre più convincenti e sono alla base delle opere site-specific realizzate nel presente progetto: La sala degli specchi (KoArt Gallery Unconventional Space) e soprattutto Gli arazzi (Cucine dell’ex Monastero dei Benedettini), le cui cromie – pur sconfinando verso brillanti fluorescenze – si ispirano alle maioliche originali del complesso monumentale e con esse entrano in stretto dialogo anche grazie alla soluzione espositiva prescelta, che pone i segni in un indissolubile continuum con le architetture.

Anche in questa serie, inedita, i segni astratti che ricoprono la superficie sono il risultato di un lento processo di addizione e accumulazione. Su un piano strettamente estetico l’effetto finale sembra ricordare le tecniche incisorie tradizionali, in cui le differenze chiaroscurali e la definizione dell’immagine sono affidate alla variazione di spessore e all’infittirsi/diradarsi delle linee. Su un piano metaforico è un processo “costruttivo” paragonabile al lavoro architettonico o ancora a quello psicoanalitico, alla edificazione dell’identità come itinerario che esige durata, disciplina, selezione della memoria, tesoro di immagini e storie da ruminare e trasformare per farne energie spendibili.

La tradizione figurativa che costituisce la premessa di questo astrattismo non sembra quasi più rintracciabile, talora, presentandosi a noi radicalmente rivestita. Ne resta forse l’eco più evidente in quella linea elastica e fluttuante, con suggestioni tridimensionali, in quel ricordo di forme naturali ridotte a motivo lineare, in cui il repertorio originario in certo senso si vanifica e diventa, più che citazione letterale, evocazione nello spirito e nell’attitudine dinamica.

A prima vista Matteo Mauro potrebbe sembrare un interprete significativo di quell’atteggiamento «laterale» che Bonito Olivo individua quale condizione dell’artista postmoderno, inevitabilmente nomade e dissidente, protagonista di un tempo, il nostro, in cui tutto è stato già detto e perciò «non rimane che la citazione o la coscienza dell’esser parlati», la «antinomia fra l’efficienza dello stile e l’inefficace dell’esistenza». Come in tutti i revival, infatti, l’enfasi sulla forma può nascondere un atteggiamento di difesa e di disincanto nei confronti della realtà; atteggiamento che però, a ben vedere, non è rintracciabile in Mauro, il cui “ritorno al passato”, del tutto privo di languori nostalgici, è invece nutrito da un vivo e reale sostrato autobiografico, dalla serietà dell’incontro con la memoria personale, dal confronto franco con le proprie radici. Ne scaturisce un rapporto fecondo con la tradizione figurativa, parte ineludibile della propria identità e patrimonio con cui riappacificarsi e dialogare, pur attraverso lo strumento audace delle tecnologie contemporanee.

La ricerca di Mauro è un equilibrio sottile fra ordine e caos, fra pianificazione e rischio, fra disciplina e attesa. Le tracce del passato sono così purificate e metabolizzate: ne fuoriesce un linguaggio vitale, sontuoso eppure fragile, sintesi della razionalità più geometrica e dell’anarchia della macchina, di controllo ed energia liberata, di storia e presente.

 

Daniela Vasta

 

Matteo Mauro
Matteo Mauro, Museo della Fabbrica